La storia di Lucia Rodocanachi ha tanto dell’incredibile quanto del rabbioso. Nacque come Lucia Morpurgo a Trieste, il 25 novembre 1901. Nel 1914 si trasferisce a Genova, dove nel 1920 prende il diploma di maestra con il massimo dei voti.
Non eserciterà mai la professione, ma passerà i suoi anni di giovinezza attorniata dai libri, di cui era vorace consumatrice, e coltivando varie passioni artistiche come la pittura, il ricamo e la grafologia. Contraddistinse quegli anni anche una forte dedizione allo studio delle lingue straniere ed una fitta corrispondenza epistolare.
Nel 1930 sposa il pittore Paolo Rodocanachi, grande amore della sua vita, il quale era molto amico di artisti come Montale, Sbarbaro e Vittorini; da Genova Lucia e Paolo si spostarono in una piccola casa ad Arenzano, luogo che pareva ideale per l’esercizio dell’arte del marito.
Successivamente arriva la “casa rosa”, seconda casa di Arenzano, dotata di ampie stanze decorate dal marito nei minimi dettagli. Bella e accogliente al punto da diventare il perno della loro vita sociale e una vera e propria calamita per artisti. Nella casa organizzavano spesso giornate intere di svago per amici, dei veri e propri raduni per artisti e intellettuali, chiamati spesso da lei “gli amici degli anni Trenta”. Qui resta una fedele e tacita compagna del pittore, circondando le sue giornate di libri e gatti.
La sua passione per la scrittura venne alimentata da un curioso diario in cui dal 1935 cominciò ad annotare tutte le visite di casa. Lo chiamò proprio il “Libretto delle visite” e non era altro che un quadernetto rilegato in pergamena in cui annotava gli invitati, le attività e gli aneddoti curiosi.
Era una donna di cultura, frequentandola, non si poteva non accorgersene.
La sua fervida attività epistolare la portò a comunicare con vari personaggi della cultura italiana del tempo, che a seguito delle varie visite fatte nella dimora di Arenzano, non poterono non notare la cultura della donna. Infatti, nel 1933, da una lettera di Montale ricevuta il 9 giugno di quell’anno, Lucia cominciò la sua attività di traduttrice. Anche, come si leggerà in molte altre sue lettere, per fuggire dalla noia dell’isolamento in quella casa di Arenzano. L’intento era aiutare l’amico Vittorini, oberato di lavoro, su una traduzione di Lawrence. In cambio ottenne, anonimato e poco danaro.
L’attività di traduttrice fu estesa ed ampiamente utilizzata dagli amici di famiglia come Vittorini, Montale, Gadda e Sbarbaro, per cui lei stessa si definì traduttrice “negra” a causa delle continue pressioni e scadenze serrate che finirono per risucchiarla in un vortice di schiavitù letteraria.
Nessuno degli “illustri amici” ebbe mai la cortesia di apporre il suo nome in una delle opere tradotte. Il che proseguì con una collaborazione che andava oltre la semplice traduzione letterale, ma oltre al danno dell’anonimato, si consumava anche quello economico vedendo il suo lavoro costantemente mal retribuito e retribuito in ritardo.
La sua fitta corrispondenza era anche un modo per sfuggire alla solitudine della campagna
Non aveva scelto lei la solitudine della campagna, piuttosto la subì per onore del marito, il quale conosciuto pittore di quegli anni, preferiva la tranquillità e l’ispirazione del paesaggio della campagna per i suoi dipinti. Leggendo le numerose lettere scambiate con gli amici Montale, Sbarbaro, Bazlen, Gadda e Barile, si percepisce la sua solitudine della “gentile negra” e quanto questi fossero il suo unico legame con il mondo esterno.
La seconda guerra mondiale sconvolse i già pesanti equilibri di Lucia. Gli amici degli anni Trenta si allontanarono e le visite si fecero sempre più rade e Lucia divenne sempre più sola. Il suo percorso di solitudine si compì quando il 25 maggio 1958 morì suo marito, Paolo Rodocanachi.
Per vivere e sopravvivere Lucia si dedicò alla traduzione di qualche opera, e al restauro di dipinti antichi.
Muore il 22 maggio 1978.
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